“La poesia è un’anima che inaugura una forma”
P.J. Jouve
Non mi sono messo a fare il critico letterario né, parlando di anima, decido di uscire dall’ambito del mio seminato e di invadere quello della religione. Rimango uno psicoterapeuta e sto usando, in questi post sulla Rêverie, il termine “poesia” per distinguere un linguaggio e per accantonare un po’ il prosaico: quello stile, spesso usato dalla psicologia, per restare materialista, per togliere tracce di poesia e di sentimento e per ammantarsi di scientificità; per tentare di essere chiara, ripetibile, generalizzabile e… insegnabile.
Ha un senso, nella materia che professo, questa riduzione: serve a stabilire una diagnosi, a stabilire un percorso di cura, ad intendersi fra colleghi. Perde senso, però, ogni volta che le nostre categorie diagnostiche diventano troppo strette per contenere i sintomi dei pazienti o troppo rigide per aiutarli a far fronte ad un dolore che se ne frega dell’etichetta diagnostica sotto la quale è stato catalogato.
Diceva Hillman: “Ho l’impressione che il modo in cui comprendiamo le persone nella pratica della terapia sia terribilmente inadeguato: abbiamo i casi clinici, abbiamo i manuali diagnostici, che a loro volta contengono centinaia di categorie diagnostiche, ma non percepiamo mai la persona in carne ed ossa. […]. Credo che la via per tornare a comprendere la natura umana passi dagli studi letterari, non dalle descrizioni scientifiche di casi clinici, o dalle analisi statistiche o da qualunque altra cosa venga insegnata agli aspiranti terapeuti. Sarebbe uno studio della vita attraverso la buona scrittura.”
E’ un’affermazione esagerata, di quelle che ad Hillman piacevano, ed è perturbante perché scuote una sorta di totem, un pilastro faticosamente eretto con incise sulla superficie frasi che invitano a riportare alle statistiche, stabilire dei protocolli, fare ricerche epidemiologiche, siglare in base al DSM-V, ecc.
E va bene così! Freud, Jung, Bion, sono stati perturbanti: per mettere in primo piano la persona in carne ed ossa non hanno esitato ad uscire dagli schemi comuni e ad adottare un “metodo pericoloso”, una procedura che permettesse di capire il linguaggio del sintomo e di andare incontro all’individuo che avevano di fronte anche se strano, irrazionale, incomprensibile… alieno.
Andare verso l’altro nonostante il senso di alienazione che si prova e che egli stesso, innanzitutto, prova.
Quando soffriamo, quando la psiche soffre, ci sentiamo strani, diversi, a disagio. E’ difficile descrivere un sintomo, difficile comunicare l’esperienza soggettiva del dolore, della tristezza, dell’angoscia. C’è una soglia da superare, una barriera, una naturale diffidenza, una protezione dal dolore: proteggiamo gli altri dalla nostra sofferenza e proteggiamo noi stessi dalla possibile incomprensione, dall’amplificazione del dolore che nasce dalla constatazione che l’altro non capisce o sminuisce o spara il primo consiglio che gli viene in mente.
I vari “su con la vita/non te la prendere/non drammatizzare…” non sono che difese, strumenti che chi dovrebbe ascoltare usa, invece, per mettersi al riparo, per non sentire nella propria carne e nelle proprie ossa il dolore che l’altro comunica. E, a volte, il messaggio è così incomprensibile che anche chi vorrebbe trasmetterlo (chi soffre degli effetti di… non si sa bene cosa, perché nemmeno lui l’ha ancora capito) non sa come fare per… dirlo.
Le parole per dirlo vanno trovate insieme. La soglia va superata da entrambe le parti e, molto spesso, la Rêverie è lo strumento fondamentale per riempire la distanza, per rendere comprensibile a tutti e due qualcosa che non c’è sui manuali, qualcosa di oscuro e traducibile solo con strani giri di parole e con rime e cantilene e approssimazioni, andando a tentoni e cogliendo con la coda dell’occhio come diceva Laing, uno psichiatra che molti consideravano “ un po’ matto” (un amico di Basaglia, uno che detestava i muri).
La Rêverie ha un suo linguaggio e si appoggia alle soglie: accetta quei “luoghi” che segnano la differenza e mettono in risalto il varco.
La siepe di Leopardi, la selva oscura di Dante, la fune tesa del funambolo dello Zarathustra, le mura di Troia, il divieto infranto e la sfinge per Edipo…: posti in cui occorre sostare per sentire il cambiamento, intuire il passaggio e la possibilità di viaggio, di svolgimento e di incontro. La letteratura è piena di soglie e delle Rêverie necessarie per percepirle e per superarle, lasciandole intatte, rispettandone il potere.
La clinica, l’arte e la tecnica con cui proviamo a cogliere nell’altro l’essenza, la causa e i percorsi del Pathos, ha bisogno di storie e di soglie. Non è un caso che Narciso, Edipo, Lady Macbeth, Anna Karenina e il giovane Raskolnikov di Delitto e Castigo se ne stiano perfettamente a proprio agio fra le categorie diagnostiche che cercano, meno bene di loro, di descrivere la colpa, l’ossessione, la fissazione, le perversioni dell’amore e del desiderio.
Queste figure portano con sé una storia e un linguaggio, descrivono uno svolgimento, un dramma e “… sono figure vive che rimangono con noi più di qualsiasi essere umano che abbiamo mai conosciuto. Quando dico che rimangono, intendo che sono realtà psichiche e possiamo imparare di più dagli scrittori particolarmente accurati o brillanti o eloquenti che dallo studio dei casi clinici.” (J.Hillman).
Queste e molte altre Figure facilitano la Rêverie, stanno sulla soglia e, come guardiani, ci aiutano a dar voce a drammi che hanno vissuto prima di noi, a realtà psichiche che fanno rima con le nostre.