“Le parole sono camaleonti
la musica ha il diritto di essere astratta
l’esperienza dell’inspiegabilità delle cose conduce al sogno
non spiegate la musica
non spiegate i sogni.
L’inafferrabile pervade tutto
bisogna sapere che ogni cosa fa rima.”
Wols
Tanti di voi ricorderanno una sequenza del film “L’attimo fuggente” in cui Robin Williams, nei panni del professore di lettere, invita i suoi studenti a strappare la prima pagina di un’antologia che ha la pretesa di insegnare un metodo efficace per interpretare un opera poetica.
Usare un metodo, applicare una tecnica, scegliere un algoritmo che, sovrapposto ad un evento, permetta di ridurlo ad un oggetto conosciuto, sono modi utili per capire e per rendere il mondo più “maneggevole”. Molto spesso funzionano, ci permettono di risparmiare tempo, di sentirci padroni del momento che stiamo vivendo e ci forniscono le risorse necessarie per liquidare la pratica e passare a quella successiva. Ma ci sono volte in cui il metodo può distruggere l’oggetto su cui viene applicato e la tecnica può, con la sua luce, diventare un abbaglio: qualcosa che svelando certi aspetti ne nasconde altri e facendo chiarezza su certi ambiti mette in ombra dettagli che, invece, non andavano ignorati.
E’ anche per questo motivo che il filosofo Gaston Bachelard, uno che di metodo se ne intendeva, mise, nell’incipit del suo libro su “La poetica della Rêverie” una frase del poeta Laforgue: “ Metodo, Metodo, cosa vuoi da me? Sai bene che ho mangiato il frutto dell’incoscienza.”
Quando abbiamo a che fare con gli esseri umani e con alcune delle loro opere, quando interagiamo e ci mettiamo in relazione con “qualcuno” invece che con “qualcosa”, quando l’incontro è con un soggetto che immagina e sogna, occorre, oltre al metodo, qualcosa che permetta di cogliere l’insieme e che sospenda, almeno in parte, quel gesto che sezionando, divide in parti e riduce a schemi conosciuti.
Se traducessimo il termine Rêverie con l’italiano fantasticheria perderemmo gran parte del significato che contiene riducendolo ad un’attività simile al sogno ad occhi aperti, qualcosa come l’assopimento o lo stato crepuscolare: un momento di abbassamento della coscienza vicino al sogno e non distante da una sorta di sonnambulismo in cui la mente perde il controllo e vaga disordinatamente.
Invece ci serve, questo termine, per indicare una posizione, uno stato, un “vertice percettivo” da cui guardare e sentire diversamente. E’ preso a prestito da una lingua e da un ambito preciso ed è bene che sia “in prestito” e non tradotto/traducibile, così che possa, rimanendo se stesso, modificare altri ambiti in cui, importato, può portare una luce diversa.
E’ femminile la Rêverie.
Tanto che Bion, anche lui prendendo a prestito il termine, parlò di Rêverie materna come di quella capacità che le madri hanno di sognare insieme al loro bambino: stare con lui accogliendolo senza giudizi, tranquillizzarlo quando ha paura “bonificando le sue emozioni negative”, ricevere i suoi messaggi considerandoli significativi così che anche per lui/lei lo diventino.
Sì perché aggiunge significato la Rêverie: in un atto simile a quello del poeta, sceglie bene le parole e… le ripete, magari, ascoltandone il suono, apprezzandone la durata e il ritmo, inserendole in una grammatica che, come uno sfondo, le evidenzia e le arricchisce… è così che abbiamo imparato a parlare.
E’ femminile perché “è una funzione più oscura”: nota cose che noi uomini non notiamo, che “l’intelligenza” così come è orientata, principalmente, oggi (anche quella delle donne, spesso), non nota. E’ come se la qualità penetrante e sviscerante del maschile con il suo procedere analitico e riduttivo avesse messo in ombra quest’altra funzione. E’ per questo che si prova, ed è difficile, ad “insegnarla” ai terapeuti. E’ per questo che spesso sembra mancare ai medici che, con il dovere dell’obiettività, dell’esame obiettivo, devono attenersi ad un metodo e “guardare molto e ascoltare poco”. Una funzione insomma che poggia sul ricettivo più che sul penetrante e che, quando la si indossa, ci rende meno incisivi e intraprendenti ma più larghi e sensibili. Meno eroici perché meno tesi verso una meta ma più attenti al luogo in cui siamo e all’atmosfera che co-creiamo.
E molto altro, ovviamente. E’, ad esempio, la Rêverie, (secondo Bion) il precursore di un continuo lavoro che si svolge, subito sotto lo stato di coscienza, una sorta di processo digestivo che, se manca, non ci permette di assorbire il mondo… come se la capacità di orientarsi e di destreggiarsi dei nostri avi fosse passata anche a noi come una “funzione sotterranea” che permise a loro di cacciare e raccogliere cibo e a noi di fare lo stesso con altri “nutrimenti”: i soldi, le informazioni e… ciò di cui andiamo in cerca, insomma. E non è stata comunicata con un insegnamento come quello che abbiamo ricevuto a scuola: è più un “estro”, qualcosa che è passato oralmente, con il cibo, i gesti, gli abbracci, l’affetto. E’ alla base della sintonizzazione, la Rêverie, e credo sia per questo che Bachelard disse, anche, che “Ci sono ancora anime per cui l’amore è il contatto fra due poetiche, la fusione di due Rêveries”.
Se può essere insegnata, quindi, non può esserlo nel modo in cui si insegna un metodo. Va allenata, piuttosto, come si allena un’arte, partendo dal gioco e da quell’interesse spontaneo che, spesso, ha il ritmo come mentore: la letteratura, la poesia, la musica, la pittura hanno nel ritmo e nella ridondanza (cosa ripetere, quando ripetere, cosa non ripetere) le loro radici. Per non parlare della danza. E può curare alcune cose (e diventare una malattia, anche) se la si usa come antidoto a quella “compulsione ad essere attivi” che ci spinge a cercare soluzioni, ad essere pratici e prosaici e a semplificare troppo, come fanno, a volte, i cultori del metodo, della “realtà” e del buon-senso.
Bisogna sapere che ogni cosa fa rima. (continua)